Il frequente ripetersi di eventi disastrosi e critici in Italia, dovuti alla instabilità naturale di fondo (sismi, attività vulcaniche, aree costiere, ecc.) cui si somma la fragilità indotta da insediamenti ed attività umane approssimative se non caotiche, ovvero che non tengono conto di quanto le conoscenze scientifiche, le norme ed anche il semplice buon senso suggerirebbero di fare, è un dato di fatto. Altrettanto lo è diventato il rituale molto verboso e poco concreto, ad essi successivo, dove si mescolano alla rinfusa: arcaica fatalità, furibonda caccia al presunto colpevole di turno, ampie dosi di dichiarazioni di buone intenzioni per il futuro, ossessiva ricostruzione di alcuni degli eventi simili precedenti, ripescaggio dagli archivi di allarmi non ascoltati, calcolo degli alti costi necessari per rimediare (forse) e prevenire (quasi mai), esemplificazioni di cattive gestioni e di soldi mal spesi, raffiche di interviste alle persone a vario titolo coinvolte. Dopo dosi massicce di questa sorta di cocktail poco digeribile ed inutile, all’improvviso cala il silenzio. Appurato contabilmente che il costo sarebbe non sostenibile, come è ovvio visto che mai si avviano ampie azioni di prevenzione programmate nel tempo, il silenzio è d’obbligo, in attesa del prossimo evento sismico, crollo, inondazione, incendio, con associato stillicidio di persone ferite o morte. Il tutto appare quasi un gioco demenziale nel quale si riparte ogni tanto da capo ma che purtroppo ha un forte costo reale in termini di vite perse, salute umana danneggiata ed oneri economici diretti ed indiretti. Come è noto, fare sempre la stessa cosa, più o meno ritualmente, ed aspettarsi risultati diversi è classificato in modo semplice: stupidità. Forse uno degli elementi aggreganti che mancano per poter meglio trasformare il coacervo di reazioni scomposte in un insieme con un po' più di senso è proprio la sociologia, scienza che appunto si occupa della società e delle relazioni interpersonali. La sociologia applicata alle catastrofi[1] ha oramai quasi cent’anni di storia, era infatti il 1920 quando fu pubblicato lo studio del sociologo Prince[2] che analizzò gli effetti dell’esplosione di una nave carica di esplosivi nei pressi del porto di Halifax, avvenuta nel 1917. Una eruzione vulcanica, un terremoto od una esondazione non sono in sé catastrofi o crisi, ma lo sono se c’è una rilevanza sociale, economica e mentale di tali eventi. Un’eruzione in un luogo deserto è solo un fenomeno naturale. Se sono coinvolte persone ed attività, se si alterano le ordinarie forme e ritmi di vita sociale ed individuale allora diventa un’emergenza: inattesa, prevedibile o probabile. Catastrofi, emergenze e disastri (spesso usati come sinonimi in inglese, pur avendo precise sfumature in lingua italiana) sono oramai termini associati sempre più spesso ad effetti ed aspetti della situazione sociale prodotti da eventi naturali o tecnologici o sociali (con il terrorismo prepotentemente entrato in scena negli ultimi anni e le conseguenze dei danni ambientali, di portata ancora non ben definibili). Da oltre quarant’anni la moderna sociologia applicata alla gestione di crisi, emergenze e disastri ha prodotto studi e ricerche ma anche indicazioni pratiche per prevenire, intervenire e gestire. Per una delle tante distorsioni culturali italiane, pur in presenza di validi studi e lavori di ricerca, forse l’unico relativo passo avanti è stato quello del recente inserimento dei problemi individuali connessi a tali eventi, con la diffusione della psicologia dell’emergenza. Tuttavia la componente sociologica, così come quella della psicologia collettiva, che ha radici sociologiche, restano ignorate oppure deformate entro schemi impropri. La cultura della prevenzione risulta infatti ancora troppo remota, nonostante calcoli economici abbiano dimostrato che l’investimento per la prevenzione è sempre più basso di quello per l’intervento successivo. Se ne parla ma non si realizza. Anche tenuto conto di ciò, all’approssimarsi del primo centenario dalla pubblicazione dello studio prima citato, il Corpo Italiano di San Lazzaro – CSLI Italia si fa promotore di un pieno recupero di tale filone di studi applicati, non solo, ma anche dell’inserimento della sociologia dell’emergenza tra le competenze applicative utili nei contesti operativi della protezione civile. Per tradurre tali intenti in azioni pratiche, il CSLI Italia inserirà tra i suoi operatori di protezione civile la figura specifica del sociologo dell’emergenza, curandone la formazione d’intesa con associazioni professionali, centri universitari e di studio. Sulla scorta di un protocollo generale di collaborazione con l’ANS (Associazione Nazionale Sociologi) che si confida di estendere ad altri organismi ed organizzazioni, il CSLI dai primi del 2019 darà vita ad un primo corso di formazione specifico, teorico ed operativo. Si sta valutando se sarà possibile realizzare ciò d’intesa anche con alcuni degli altri Corpi di San Lazzaro presenti nei Paesi europei, unificati attraverso il Comando Europeo delle operazioni internazionali della Lazarus Union, la ONG che riunisce i vari Corpi di San Lazzaro. L’innovazione, l’aggiornamento e la prevenzione sono costanti distintive del Corpo Italiano di San Lazzaro che, nel farsi promotore di tali iniziative, auspica quindi la più ampia, fattiva, collaborazione. [1] L’analisi sociologica teorica è decisamente antecedente, basti ricordare Durkheim. [2] Prince, S., Catastrophe and social change, London 1920
2 Comments
Bradford Nathan
6/2/2021 10:41:28 pm
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Bradford Nathan
6/2/2021 10:42:39 pm
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