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La vulnerabilità sociale: un fattore sottostimato nell’analisi dei rischi da catastrofe

14/1/2017

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  Secondo la definizione delle Nazioni Unite, una catastrofe, o disastro, è ‘un evento concentrato nel tempo e nello spazio, nel corso del quale una comunità è sottoposta a un grave pericolo ed è soggetta a perdite dei suoi membri, o delle proprietà o dei beni, in misura tale che la struttura sociale è sconvolta e risulta impossibile lo svolgimento delle funzioni essenziali della società stessa’.     Oggi, nel mondo, le situazioni di crisi e disastro sono molteplici ed  è molto complesso individuarne i punti comuni: le cause che innescano i disastri sono numerose, così come molteplici sono le tipologie degli eventi capaci di causare gravi danni. Se da una parte terremoti ed eruzioni seguono tempi di manifestazione geologici, misurati in termini di centinaia, migliaia o milioni di anni, le mutazioni climatiche, influenzate principalmente da variabili astronomiche, seguono trend secolari che possono avere impatti anche nel breve termine.  Infine, gli eventi causati da incidenti industriali, o da altre cause tecnologiche ed umane, sono privi di regolarità ma possono essere almeno in parte associati ai livelli di efficienza e ricchezza di una società.     Se è vero che i fattori naturali (sismicità, aree vulcaniche, ecc.) concorrono a determinare le condizioni per un disastro, come giustamente affermò il sismologo Richter, non ne sono responsabili. Infatti non sono i terremoti che uccidono le persone, bensì gli edifici mentre cadono, e situazioni analoghe si verificano pure per altri tipi di eventi.  Questa semplice considerazione evidenzia il fuoco del problema:  spesso non sono gli eventi che causano il disastro, ma la loro interazione con l’ambiente antropizzato.  Fenomeni che sembrano avvenire per la prima volta in una determinata area, si sono probabilmente già verificati più volte, ma non avendo avuto gravi conseguenze sono passati inosservati. Ad esempio, in Italia, varie alluvioni hanno interessato le aree pianeggianti che si formano lungo i meandri dei fiumi e che sono state inopportunamente occupate da attività industriali, quando non da quartieri residenziali. Il panorama delle città e dei borghi d’Italia, nel corso di molti secoli, è il risultato di un continuo compromesso fra natura e popolazioni, dove le risorse derivanti dalla terra, dai commerci e dalle guerre, si sono bilanciate con la fragilità dei luoghi e l’ostilità di altri uomini.
  A partire dal XIX secolo, la crescita della popolazione, associata all’industrializzazione, allo sviluppo della scienza e della medicina, ha alterato sempre più il faticoso equilibrio che si era realizzato in migliaia di anni. In particolare, con il secondo dopoguerra, il territorio di molti Paesi ha subito una duplice trasformazione: da una parte l’abbandono dell’agricoltura e la crescita della società industriale ha portato ad una urbanizzazione di massa, dall’altra il trasporto individuale ha causato una espansione macroscopica delle aree costruite. La speculazione finanziaria ha ulteriormente favorito questo fenomeno di crescita urbana che si è poi slegato dalla effettiva richiesta abitativa. Le abnormi città capitali di molti Paesi in via di sviluppo ne sono un esempio eclatante, così come l’espansione disordinata delle aree urbane di numerosi Paesi sviluppati.      Questo processo, manifestatosi in tempi rapidissimi, grazie anche al progresso delle tecniche edilizie ed alla possibilità di ampi guadagni ottenuti con le attività edilizie stesse, ha completamente alterato il paesaggio, senza alcuna considerazione della fragilità e del difficile contesto idrogeologico.  La trasformazione sociale, da un sistema sostanzialmente basato sull’agricoltura ad una popolazione inurbata in città sempre più grandi, ha ulteriormente peggiorato il rapporto uomo-ambiente. In breve tempo si è passati da un paese disseminato e controllato da agglomerati contadini autosufficienti, i cui componenti provvedevano anche alla conservazione quotidiana dell’ambiente, a estese aeree urbane, talvolta prive dei connotati organizzativi di città vere e proprie.  Perciò il Germani aveva acutamente associato le dinamiche dell’urbanizzazione a quelle della modernizzazione.  Una struttura sociale divenuta sempre più fluida e frammentata, si è affidata totalmente alle amministrazioni, locali o statali, delegando loro ogni provvedimento basato sulla conoscenza della natura specifica e sulle possibilità di sfruttamento del territorio. In questo modo, mentre gran parte della popolazione restava nella completa ignoranza dei possibili danni cui poteva essere esposta, le amministrazioni locali sono state, e in larga parte continuano a essere, inadeguate ai nuovi compiti, per la mancanza di strumenti culturali, economici e normativi, indispensabili per la preservazione dell’ambiente e la prevenzione dei rischi derivanti dalla sua profonda alterazione.      Lo sviluppo incontrollato dell’urbanizzazione in zone a elevato rischio, purtroppo particolarmente estese lungo tutta la penisola italiana, ha esposto un numero sempre crescente di persone alle conseguenze di alluvioni, frane, terremoti ed eruzioni. I disastri causati dal dissesto idrogeologico, frequenti in Italia, non nascono da un’occasionale dimenticanza, o mancata allerta, ma sono il risultato della trasformazione del Paese che non si è dotato di meccanismi di salvaguardia atti a contrastare la crescente ignoranza ambientale della propria popolazione unita alla voraci speculazioni miranti ad un guadagno veloce.  
  Previsione e prevenzione sono due approcci diversi ai fenomeni naturali e alla loro interazione con l’ambiente.   Previsione significa essere capaci di identificare la dinamica di un fenomeno naturale o sociale, e di conseguenza essere in grado di individuare il momento in cui raggiungerà una fase critica, quantificandone l’intensità.  Prevenzione significa essere in grado di individuare gli effetti che un fenomeno naturale o sociale può avere sull’ambiente e, di conseguenza, individuare le azioni capaci di ridurne l’impatto.       I progressi maggiori si sono indirizzati verso la prevenzione ma con  carenze relative alle caratteristiche sociali. Ad esempio, in Italia è ormai ben definito il quadro delle zone suscettibili di essere colpite da terremoti che possono provocare accelerazioni superiori a un determinato valore e la distribuzione geografica delle zone in frana o soggette a possibili inondazioni. Altrettanto conosciute sono le aree che possono essere interessate da fenomeni eruttivi.   Ciò che manca è il trasferimento di queste conoscenze a livello di autorità locale che, con le dovute differenze, sembrano marcare un ritardo nell’adeguarsi al progresso delle conoscenze scientifiche e normative formulate a livello nazionale.
  L’approccio ancora oggi prevalente parte dalla definizione delle caratteristiche dell’evento (naturale o artificiale) per ricostruire il rischio e la vulnerabilità, quest’ultima tuttavia, in modo evidente, si manifesta sempre più diversificata in relazione a fattori sociali, economici e culturali.  La vulnerabilità fisica dipende sempre più di frequente dalla vulnerabilità sociale; per portare un esempio, a parità di evento sismico, trovarsi in un’area del Giappone con edifici antisismici ed infrastrutture adeguate risulta molto meno rischioso che non trovarsi in un borgo appenninico privo di edilizia antisismica e con infrastrutture carenti.   Semplificando, si potrebbe generalizzare dicendo che trovarsi in un area più ricca, che ha investito in tecnologie preventive, risulta nettamente meno rischioso che non trovarsi in un’area povera dove non si è investito e realizzato ciò che le conoscenze tecnico-scientifiche avrebbero suggerito di realizzare.    In alcuni casi, il deficit è dovuto alla cattiva e superficiale amministrazione, in altri alla carenza di fondi per gli interventi.  Così, probabilmente, un edificio con minore manutenzione perché abitato da persone con minore capacità di spesa, rischia più di un edificio del tutto simile ma con migliore (e più costosa) manutenzione.   La mitigazione dei rischi ha un costo che socialmente e politicamente bisogna decidere di affrontare se si vogliono ridurre i danni a persone e cose.  Non solo lo Stato è chiamato a rispondere in materia, ma pure i cittadini devono essere attenti a richiedere tali iniziative (ciò è evidente specialmente in contesti democratici nei quali i politici cercano di ingraziarsi, almeno a parole, l’elettorato).   Accanto a conoscenze ed azioni strettamente tecnico-scientifiche (ingegneristiche, geofisiche, geologiche, ecc.), emerge il ruolo strategico di quelle comunicative, informative, gestionali, sociologiche, amministrative, per ridurre - in partenza – la vulnerabilità di alcune aree e/o popolazioni e mitigare le conseguenze delle crisi.  Un’iniziativa di politica pubblica per azioni collettive di intervento, non è secondaria e non è relegabile solo al dopo evento, cioè a crisi già verificatesi, deve invece svolgere un’opera preventiva riducendo per quanto possibile pericoli, rischi e vulnerabilità.
 Tutte le risorse: naturali, umane, sociali, fisiche, economiche, politiche, entrano in gioco e possono determinare situazioni di marginalizzazione e quindi di vulnerabilità più alta di quella che ci si aspetterebbe.  Alcuni autori hanno descritto la possibilità di definire almeno quattro tipi di marginalizzazione: geografica (le risorse naturali), sociale (le risorse umane e sociali), economica (le risorse fisiche e quelle economiche) e politica (attitudine e capacità di prospettare soluzioni).
Ricordando che il Rischio è traducibile nell'equazione:  R = P x V x E,  dove
P = Pericolosità: è la probabilità che un fenomeno di una determinata intensità si verifichi in un certo periodo di tempo, in una data area. 
V = Vulnerabilità: la Vulnerabilità di un elemento (persone, edifici, infrastrutture, attività economiche) è la propensione a subire danneggiamenti in conseguenza delle sollecitazioni indotte da un evento di una certa intensità. 
E = Esposizione, o Valore esposto: è il numero di unità (o “valore”) di ognuno degli elementi a rischio (es. vite umane, case) presenti in una data area.
 
 Si osserva così il verificarsi di una progressione della vulnerabilità che parte dalle precondizioni di primo livello (es.: scarsità di infrastrutture e loro carente manutenzione – si pensi al Mezzogiorno d’Italia!-, povertà diffusa, ecc.);  poi dalle situazioni di secondo livello (mancanza di scelte politiche ed amministrative coerenti, carenza di addestramento, riduzione di fondi per destinarli ad altre attività,  alta densità demografica, urbanizzazione caotica, ecc.);  quindi si arriva alle condizioni di partenza di scarsa sicurezza (edifici malandati, localizzazioni inappropriate, bassi livelli di reddito che determinano , ecc.).  Tali tre livelli, come evidenziato nel grafico (vedi), determinano i livelli di vulnerabilità e quindi, indirettamente, di rischio, che non sono casuali o legati al fato.

  In molte aree le cause della vulnerabilità sono in buona parte sociali più che dipendenti da un calcolo statistico astratto medio, o teorico, perciò una riduzione effettiva delle vulnerabilità e dei danni registrati (in sintesi del rischio) dopo le crisi, sono conseguenza di scelte, azioni e risorse ben identificabili.  Gruppi socio-economici diversi presentano livelli diversi di vulnerabilità, come confermato pure a livello internazionale. La stessa capacità di resilienza – cioè la capacità di affrontare e superare un evento critico - include la disponibilità di risorse sociali e materiali oltre che psicologiche e, non ultimo, di un livello di salute (e sanitario) accettabile.  Le dimensioni degli eventi di crisi, la loro ampiezza fisica e demografica, possono determinare sovraccarichi di richieste che risultano al di sopra delle capacità organizzative e dei mezzi disponibili, specialmente qualora le azioni preventive e le infrastrutture non siano state adeguatamente predisposte per le eventualità note o stimate di un dato territorio.  Le aree di pericolosità sismica, vulcanica, da maremoto, da esondazione, ecc. sono ampiamente note, sebbene le conseguenze di tali conoscenze siano state spesso nulle a causa della ignavia e delle incompetenze di amministratori, politici e gestori che sono intervenuti poco o nulla.   Una vulnerabilità misurata senza tener conto delle caratteristiche specifiche della popolazione presente su un dato territorio è un valore astratto, poco utile nelle operazioni concrete di intervento.  La presenza di anziani, di malati, di fasce deboli in generale, le carenze o le inefficienze nel modificare in tempo utile situazioni a rischio, non sono fattori secondari.   L’accesso e l’accessibilità alle risorse del territorio e la loro distribuzione, o assenza, producono un effetto che può grandemente amplificare o ridurre le conseguenze di una crisi o di un disastro.  Così come la pressione demografica ed urbana, od il livello di degrado ambientale già raggiunto causato da azioni umane, non possono essere considerati fattori secondari o marginali, sono elementi portanti della vulnerabilità e quindi del rischio stesso.  L’invecchiamento demografico, l’impoverimento di alcune aree per emigrazione dei più giovani ed istruiti ed altre variabili analoghe, limitano le potenzialità presenti ed impongono aggiustamenti anche per i piani di intervento.   Ciò va sommato alle variazioni climatiche ed ambientali causate dal degrado sistematico, dallo sfruttamento avventato del territorio e delle sue risorse, dal disboscamento e dalla alterazione degli equilibri idrogeologici, dalla disseminazione sul territorio di concentrazioni di rifiuti (discariche urbane, industriali, ecc.) che non essendo sempre a norma costituiscono altrettanti fattori di potenziale aggravamento delle crisi.
   Andrebbero meglio valutati i costi umani, sociali ed ambientali, di medio e di lungo periodo confrontandoli con quelli della prevenzione e della messa in sicurezza, che non andrebbe limitata alle situazioni di rischio imminente da eventi.  Senza bisogno di calcoli sofisticati, si intuisce come investimenti limitati, ma continui nel tempo, producano effetti migliorativi ad un costo finale molto più basso rispetto ad interventi di urgenza post crisi nei quali c’è l’aggravio di danni ingenti da riparare (oltre ai costi umani in termini di feriti, morti, disturbi mentali).  Purtroppo questi ultimi costi umani sono abitualmente ignorati poiché ricadono essenzialmente sulle famiglie e sui singoli, e solo marginalmente sulla collettività.   Una società parzialmente disgregata, che sia pervasa da sfiducia, egoismo e indifferenza reciproci difficilmente riesce a produrre benessere e miglioramento delle sue stesse componenti.  Letteralmente, non si produce e non si garantisce sicurezza, che nell’origine latina del termine significa correttamente “senza preoccupazione” (sine cura).  La fragilità sociale non è quindi solo quella dei portatori di handicap o delle persone affette da qualche disturbo o malattia, come in analisi orientate al servizio sociale è abitualmente indicato, ma è una fragilità di ampi settori della società, o della società stessa in senso ampio. Si tratta di quelle situazioni di fragilità date dai parametri demografici, economici, di disgregazione sociale o di emarginazione che minano e indebolsicono, di fatto, in situazioni di crisi, le possibilità di fuga, il reperimento di soluzioni alternative, la sicurezza delle proprie abitazioni.  La stessa psicologia delle emergenze sottolinea che persone provate fisicamente e/o psichicamente sono più suscettibili di riportare danni in situazioni di emergenza, e frequentemente li riportano in misura maggiore. Per tale motivo, potrebbe essere utile articolare fragilità e resilienza distinguendo:
  1. La fragilità fisica da esposizione: cioè la suscettibilità degli insediamenti di essere colpiti da fenomeni connessi alla loro localizzazione (es.: aree sismiche, vulcaniche, ecc.) e per la assenza di resistenza fisica  (es.: strutture fatiscenti o già pericolanti);
  2. La fragilità socio-economica: ovvero la predisposizione a soffrire danni a causa dei livelli di marginalità, povertà, segregazione, dellel condizioni svantaggiate e quindi della debolezza connessa a fattori economici e sociali;
  3. La fragilità per mancanza di resilienza sociale:  prodotta dalle limitazioni di accesso alle risorse od alla loro mobilizzazione di un dato insediamento o gruppo sociale, che limitano le capacità di risposta e di assorbire l’impatto della crisi.
  Secondo Ulrich Beck: la globalizzazione, l’individualizzazione, la disoccupazione, la rivoluzione dei generi ed i rischi globali della crisi ecologica e della turbolenza dei mercati finanziari, sono un insieme che non può essere considerato lo sfondo entro il quale si verificano altre trasformazioni sociali, ma sono i parametri principali in mutamento dai quali non si può prescindere.  Per tale motivo lo studioso parlava di una “società del rischio” e di una sorta di seconda modernizzazione, con una fragilità sempre meno “prevedibile”, quello che Castells definirebbe uno “stato di ordinaria insicurezza”.   Anche Gino Germani aveva preconizzato una società modernizzata sempre meno facilmente gestibile e maggiormente sottoposta a rischi da vulnerabilità.     L’indebolimento, negli ultimi decenni, di tre istituzioni centrali per le persone: 1. il mercato del lavoro, dove si è passati da una logica di piena occupazione generalmente con contratti a tempo indeterminato ad un rapporto di flessibilità, termine con il quale si vela la precarietà, con retribuzioni spesso in decremento;  2. la famiglia, dove si è passati da una ordinaria stabilità delle relazioni a un frequente riposizionamento, intreno e della famiglia nel contesto sociale, che porta a una pluralità di nuclei familiari e di forme di convivenza ed una difficoltà di coltivare le relazioni oltre che di confidare in esse;   3. il welfare state, che da sistema di protezione di stampo universalistico e centralizzato capace di rispondere a bisogni standard e oggettivi, è passato ad una visione de-istituzionalizzata, sempre più privatistica, che però non riesce a rispondere ai bisogni, come accadeva prima (ad esempio si enfatizzano procedure individuali assicurative o sanitarie ma non si garantiscono redditi adeguati a che ciò possa avvenire!).  L’incertezza che ne deriva limita la capacità di prevedere e calcolare gli effetti dell’azione, ovvero la propria dimensione di vita nel tempo.  Quali azioni potrò intraprendere  e sostenere domani?  Avrò un lavoro o una retribuzione adeguati?  Quali dei bisogni presenti potrà essere soddisfatto dagli esiti di una azione proiettata nel tempo a fronte di una precarietà diffusa?  La situazione  coinvolge inevitabilmente anche la stabilità o meno delle relazioni sociali su cui si basa la stessa possibilità di scelta e di decisione. Queste logiche sociali prevalenti, ispirate al neoliberismo diffuso in sempre più vasti ambiti culturali e sociali (logiche però non praticate dalle concentrazioni finanziarie e di potere) hanno indebolito e reso più fragile la trama sociale, sia nella sua struttura che nelle dinamiche di trasformazione.  Tale aspetto della vulnerabilità coinvolge non solo la prevenzione ma anche, forse soprattutto, la gestione degli eventi.
  Poiché il Rischio, come prima ricordato, è il prodotto di vulnerabilità, pericolosità ed esposizione, considerato che la pericolosità risulta usualmente meno modificabile, la riduzione del rischio graverà in larga misura sulla capacità di analizzare le fragilità e vulnerabilità sociali e di agire su di esse in modo preventivo.  La riduzione e la gestione del rischio, quindi, per essere efficaci, devono essere il più possibile in sintonia con le caratteristiche generali delle società nelle quali si vogliono approntare strumenti di prevenzione, riduzione ed intervento per crisi e catastrofi. Non ultimo, dopo le crisi e catastrofi, risulta più difficile ricostruire le reti sociali e dare un senso di speranza connessa ad una progettualità che si proietta nel futuro.

Prof. Antonio Virgili

© Testo tratto da materiali del Prof. A. Virgili ed utilizzato sia per i seminari interni del CSLI Italia che per quelli pubblici su “Rischi e prevenzione di protezione civile” e di “Psicologia dell’emergenza” tenuti presso la Fondazione Humaniter nel 2016.

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